I fatti accaduti nel 1907 ebbero per protagonista principale Michele Manfredi - Gigliotti. Nel novembre 1975 essi furono poi riportati in un romanzo titolato “Pane nero” (Edizioni Florio, Palermo) a opera dell’omonimo nipote.
Quest’ultimo, nato a Nocera il 12 giugno 1941, dopo essersi laureato a Palermo in Giurisprudenza, rimase in questa città per esercitarvi la professione di avvocato. Oggi, invece, vive a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina. E’ autore di molti libri (vedi, per la biografia e altre notizie, l’anno 1975).

L’autore, in “Pane nero”, precisa che il nucleo centrale dei fatti narrati è realmente accaduto in Nocera, anche se non manca qualche libertà interpretativa. Anche il nome del protagonista corrisponde a quello reale. I nomi degli altri personaggi, invece, sono inventati, “per cui in caso di omonimia, si tratta di pura e semplice coincidenza”.
In realtà l’autore, in qualche circostanza, non voleva, come lui stesso ci ha detto, che s’individuassero la famiglia e le persone alle quali nel romanzo si riferiva.
Precauzioni eccessive, soprattutto considerando che i fatti raccontati risalivano al 1907 e se ne scriveva nel 1975, ben 68 anni dopo.
Il romanzo, commovente e spesso anche divertente in alcune descrizioni, è stato adottato in Calabria e in Sicilia, all’epoca della pubblicazione, da molte scuole.
I fatti narrati
In 140 pagine “Pane nero” si snoda secondo questi fatti.
Il racconto inizia con l’arrivo da Napoli a Nocera del giovane Michele, neo avvocato, accolto alla stazione dal padre don Pietro Maria. La sua intenzione era fermarsi per poco tempo e poi ripartire per Roma per intraprendere la carriera forense con l’amico Nicola Caligiuri che lo attendeva per mettere in cantiere il progetto.
Padre e figlio salirono su in paese. La famiglia abitava in Via Valle, dove ad attendere Michele c’era la madre, donna Maria Cimino.
Michele, a Nocera, in attesa della partenza, frequentava vecchi amici, Antonio Esposito, barbiere e cavadenti, detto “Malocchio” per la sua superstizione, Carlo Iomine, calzolaio, padre di sette figli tutti maschi e in attesa dell’ottavo con la speranza di avere una femmina, don Vincenzo Forestieri (in realtà don Vincenzo Cavalieri), 55 anni, discendente di una nobile famiglia decaduta, che per guadagnar qualcosa faceva anche l’organista alla Chiesa di San Giovanni.
I tre si lamentarono delle condizioni del paese, in forte degrado e in condizioni di povertà. I contadini erano sfruttati e mal pagati dai ricchi padroni del luogo. Michele capì che avrebbero dovuto ribellarsi a quello stato di cose, ma che per farlo avrebbero avuto bisogno di essere organizzati e guidati. Dopo qualche giorno di riflessione, acquisì la convinzione che questo compito avrebbe potuto assolverlo lui. Così, dopo qualche giorno passato nel dubbio se partire per pensare alla sua carriera o restare per mettersi a capo dei poveri contadini, decise di non partire più per Roma. Con gli amici organizzò, al fine di creare un gruppo di lotta, una riunione notturna segreta presso la Macchina di Longo, oltre la fontana del Canale, in un casotto di proprietà di Tommaso Mastroianni.
Parteciparono molti contadini, circa un centinaio. Tra i presenti anche un personaggio che inizialmente si teneva nascosto ma che poi si rivelò. Figlio di genitori ignoti, era detto “Pallottola”, che significava “puzzola”, per l’abitudine a non lavarsi mai. Era ricercato per un omicidio che avrebbe commesso in Sardegna sul posto di lavoro. Alle dipendenze di una ditta di Torino, l’ingegnere rappresentante della ditta, vista la sua dedizione al lavoro, aveva deciso di promuoverlo caposquadra. La decisione aveva scatenato, però, le ire del vice dell’ingegnere che avrebbe voluto quella promozione per il figlio della sua amante. Erano seguiti molti diverbi tra lui e “Pallottola”. Questi, un giorno, era stato offeso con una frase che riguardava le sue origini e il giorno dopo il vice dell’ingegnere era stato ritrovato in una pozza di sangue. Nel racconto, però, non si dice mai se effettivamente fosse stato “Pallottola” a uccidere l’uomo. Poi, dopo quell’omicidio, “Pallottola” era sparito.
Il gruppo, dopo la riunione, costituì una Cooperativa di Consumo e una Lega Agricola. Entrambe furono chiamate “Risorgimento”. Fu costituito un fondo cassa di due lire a testa. L’intento era occupare le terre incolte del marchese Eugenio De Luca in Marina (del quale non si fa mai il nome citandolo come “il marchese”). Fu preparata anche la bandiera del gruppo: rossa, con al centro, ricamate con filo d’oro, una corona d’alloro e due mani intrecciate.
Lo stesso marchese, venuto a conoscenza del fatto, invitò Michele a casa sua a una battuta di caccia al cinghiale. Durante la battuta, nell’uccidere il cinghiale, alcuni spari echeggiano vicino a Michele e non si capisce, nel racconto, se fu per caso o se per ordine del marchese che voleva impaurirlo. Comunque, tornato in paese il giorno dopo, Michele non desistette dal suo proposito. E già per il mattino seguente organizzò la partenza, con ventuno compagni, alla volta di Martirano, dove, in casa di un notaio, si sottoscrisse la costituzione ufficiale del gruppo, con 22 aderenti.
Il giorno successivo Michele si recò a Catanzaro per sottoporre lo Statuto al Prefetto.
Come prima protesta, la stessa notte, alcuni appartenenti al gruppo, organizzati da Michele, murarono il Municipio, sito in Via Cobelli (lì dove oggi abita la famiglia Ganino, ndr). Al tempo, in molte parti d’Italia, nella lotta contadina, i Municipi si bruciavano, per distruggere i catasti dei terreni. Il fatto richiamò da Nicastro vari cronisti.
Uno dei giornali finì, come voleva Michele, sul tavolo del Prefetto. Questi, ricordandosi del loro recente incontro, mandò a Nocera il cav. Fonte per farsi relazionare sulle condizioni misere del paese. Al Fonte, inoltre, chiese di incontrare Michele, per un colloquio amichevole sui fatti accaduti.
Pochi giorni dopo, la svolta. “Avuta la relazione, il prefetto, con proprio decreto motivato, autorizzava la Cooperativa Risorgimento, in linea provvisoria e a titolo di esperimento, all’approvvigionamento dei beni contingentati da parte del consorzio granario. Disponeva, inoltre, che le assegnazioni fossero seguite in base all’elenco delle bocche che all’uopo la Risorgimento avrebbe redatto. Faceva carico, infine, al presidente del consorzio granario e all’intendenza di Finanza di eseguire il decreto per le parti di rispettiva competenza.”
Dopo questo successo, all’inaugurazione della sede della Lega si ritrovarono presenti 200 persone, il doppio di quante ne erano convenute alla Macchina di Longo.
In seguito fu attivata la Cooperativa di Consumo “Risorgimento”, con bancone di vendita, scaffali e generi alimentari.
I ricchi del paese risposero con la “Cooperativa Industriale”. Fino ad allora era stata usata per loro esclusivo servizio, poi fu aperta anche ai “cafoni”. Per tenerli vicini, e quindi sotto controllo, si vendeva addirittura sotto costo.
Michele scrisse al Prefetto e al marchese De Luca chiedendo amichevolmente le terre da coltivare.
Una sera scoppiò un incendio in un uliveto di Fangiano di proprietà del marchese. Due contadini accusarono Michele. Ma era solo una trappola del marchese. Grazie a questa accusa all’indomani avrebbero arrestato Michele.
Don Pietro e i compagni di Michele, però, la stessa notte lo fecero rifugiare in casa di amici contadini a Pietrebianche.
Il giorno dopo giunse il pretore da Nicastro e fu spiccato l’ordine di arresto nei confronti di Michele. I Carabinieri, però, non lo trovarono a casa. Letta la denuncia, furono scoperti i nomi dei due accusatori di Michele.
Questi, nel frattempo, non accettava di starsene nascosto ed elaborò un piano. Che subito attuò. Nella notte del sabato tornò in paese. E il mattino successivo si recò a Messa. In piazza, nel frattempo, Carlo Iomine aveva raccolto un gran numero di persone. All’uscita della Messa, Michele, come previsto dal suo piano, fu arrestato.
Passata la notte, all’alba don Pietro e Carlo Iomine partirono in calesse alla volta di Nicastro per consegnare una lettera al giornalista de “La Frusta”. Il giornale si mise a disposizione. Invece, chi aveva un proprio piano era “Pallottola”. Quella stessa mattina, verso mezzogiorno, raggiunse a Campodorato nelle loro case i due testimoni. Li minacciò. Dovevano dire la verità. I due, impauriti, partirono alla volta di Nocera, seguiti a distanza da “Pallottola”.
Il Pretore vide la situazione sotto una nuova luce. Dopodiché decise di conoscere Michele. Lo invitò a chiedere la libertà provvisoria che gli avrebbe accordato e già all’indomani sarebbe stato scarcerato. E così fu.
Poi arrivò il grande giorno. Fu costruito un accampamento in Piazza, con una cinta fatta di frasche alta un metro e mezzo. Subito fu presidiato dai Carabinieri della Compagnia di Nicastro che però non sapevano quale atteggiamento assumere. Si optò per un comportamento pacifico in attesa degli eventi. La protesta si protrasse per oltre una ventina di giorni. Una donna del paese, Maria Rizzo detta “Agateddra”, con una grande pentola, provvedeva al cucinato. Nessuno, nel frattempo, interveniva. Lo scopo delle autorità era quello di sfiancare i protestatari. I fatti, nel frattempo, venivano prontamente commentati dal giornale di Nicastro “La frusta”.
Alla trentunesima notte giunse la notizia della nascita della nuova figlia di Carlo Iomine. Fu chiamata Speranza.
L’epilogo della storia maturò una ventina di giorni prima di Natale. “Pallottola”, dopo tanto tempo, decise di radersi. E, senza la barba, un Carabiniere che lo aveva adocchiato da tempo, all’improvviso lo riconobbe. Era la stessa persona accusata e ricercata in Sardegna. “Pallottola”, impaurito, cercò di darsi alla fuga scavalcando il reticolo di frasche. Gli fu intimato l’alt, non si fermò, partì un colpo e “Pallottola” morì. La messa funebre gli fu celebrata nel recinto. Durante il rito, una tromba dei Carabinieri gli rese onore con “il Silenzio”. Fu un atteggiamento di distensione. Michele fu chiamato a trattare dal Prefetto di Catanzaro e dal Capitano dei Carabinieri. Si assentò per parecchie ore, poi, al ritorno annunciò che le terre erano state concesse dal marchese, divenuto all’improvviso mansueto. Immediatamente si partì a piedi verso la Marina dove la bandiera rossa con la corolla d’alloro e le mani intrecciate ricamate con filo d’oro, fu issata su un albero.
Istantanee su Nocera
Nel racconto sono riportati alcuni particolari o descrizioni che danno l’immagine della Nocera del tempo.
- Nella stazione ferroviaria c’era una fontana a pompa. L’accesso era delimitato da un cancello di ferro.
- Davanti alla stazione c‘era un piccolo spiazzale e poi un’osteria, proprio come oggi.
- L’osteria era costruita in tufo, dipinta di rosso, con una piccola pergola.
- Questa una frase dell’oste della Stazione dalla quale si deduce un quadro della situazione economica del tempo in paese.
- <<Brutta annata… brutta annata davvero! Molti raccolti sono andati distrutti. Interi campi di grano sono stati bruciati, e le olive non promettono niente di buono. I cafoni invidiano noi bottegai perché, dicono, non facciamo niente dalla mattina alla sera e guadagniamo un sacco di soldi. Ma lo sanno loro che sono due giorni che nessuno viene nella mia bottega?>>
- Per giungere in treno da Napoli a Nocera si usava un Diretto fino Paola e poi bisognava aspettare per un’ora e mezza l’Accellerato per Nocera.
- La pianura che portava al mare, a parte qualche ontano altissimo, era tutta cosparsa di erbacce. Il volo di qualche beccaccino faceva presumere la presenza di acquitrini e paludi.
- Il marchese De Luca (quello del tempo) era anziano.
- La strada che conduceva a Nocera era bianca e ghiaiosa e circondata da ulivi da entrambi i lati.
- I cani da mandria portavano il collare di filo spinato per evitare che fossero azzannati dai lupi.
- “Quella che attraversava il paese più che una strada era un vicolo. Largo circa tre metri, non consentiva il passaggio di due calessi appaiati, se non in determinati punti; alla piazza, di fronte la chiesa dell’Annunziata, alla biforcazione della strada che saliva a San Francesco.
Spesse volte i calessi e i birocci dovevano retrocedere, guadagnare i punti più larghi per consentire il passaggio degli altri. A questo proposito vigeva in Nocera Terinese una consolidata ed indiscussa norma consuetudinaria che regolava la circolazione: i più disgraziati dovevano cedere il passo e retrocedere di fronte ai più abbienti e circa la preminenza economica non sorgevano certo discussioni.”
- Esisteva la figura del "grastature", o anche “castra porci”, ossia il norcino, un esperto nello sterilizzare e castrare gli animali, in modo particolare i maiali, in maniera tale da facilitarne l’ingrasso. Veniva da fuori ed esercitava al Canale, appena fuori dal paese, vestendo una caratteristica tuta bianca. Di questa figura parleremo più dettagliatamente in seguito.
- In piazza c’era un bar (l’attuale “Mio Bar”) e al fianco la bottega del barbiere Antonio Esposito.
- Il marchese, riunitosi con tutti gli altri grossi proprietari terrieri nella sua villa di Martirano, aveva deciso di aumentare il prezzo dell’olio che equivaleva, già prima dell’aumento, alla paga di tre giorni di un operaio.
- Alcuni contadini raccoglievano per la strada gli escrementi dei loro asini, tondi e solidi, a palline, con le mani. Quelli dei buoi con una paletta. Li mettevano in un sacco. E se ne servivano per concimare gli orti. Da ciò, il detto “l’asino davanti pulisce e da dietro concima”.
- Il paese è descritto senz’acqua, senza luce, senza scuole, senza una parvenza di servizi igienici, alla mercé degli “umori celebrini” di pochi signorotti.
- Poteva capitare che gli escrementi umani fossero buttati dai balconi avvolti in una carta.
- Il parroco don Francesco pizzicava tabacco da fiuto. Lo estraeva da una scatolina sotto la tonaca. Era il reale don Francesco Pontieri.
- L’anno in cui si svolsero i fatti in narrazione il raccolto fu molto magro. Al punto che i contadini, delusi, disertarono la “Festa dell’Altissimo” e non portarono alcuna offerta, né in denaro, né in natura. I festeggiamenti, secondo tradizione, volevano essere un ringraziamento alla fine della stagione estiva per il buon raccolto ottenuto. Quell’anno, invece, le cose andarono malissimo.
- Esisteva un casolare abbandonato oltre il sentiero che dal Canale, oltrepassato il “Vallone di Fravia” (ossia Flavia) portava alla montagna. Questo casolare era detto la “Macchina dei Longo”, in ricordo di un trappeto che vi funzionò fino a quando il casolare non fu abbandonato. Il proprietario era un buon uomo, Tommaso Mastroianni.
- Le donne povere non portavano scarpe né in estate, né in autunno.
- Alle fiere fuori dal paese i ragazzi vendevano della normale acqua di
- Per le strade, ambulanti vendevano le uova.
- Vigeva l’usanza del “maiale di Sant’Antonio”.
- Le donne lavavano i panni al fiume sui lavatoi ricavati con lastre di pietra.
- C’era una località nella parte superiore di Fangiano, lungo la via interna
che proveniva da Campo d’Arata, denominata Fontanappesa.
- In località Foresta, prima del Girone di Niccoli, esisteva una taverna malandata.
- Era conosciuta una vecchia filastrocca declamata dai calzolai:
“Salutamu la mastranza, i scarpari sunnu i primi, chi si inchienu la panza, china e corchie di lupini”.
La traduzione dice:
“Salutiamo la maestranza, i calzolai sono i primi, che si riempiono la pancia, piena di bucce di lupini”.
- Le campane della Chiesa di San Giovanni, in alcune giornate particolarmente silenziose, si percepivano addirittura a Falerna e a San Mango.
Altri personaggi citati
- Giovanni “Riggitano”, gestore dell’osteria della Stazione, così chiamato
per la sua provenienza da Reggio Calabria.
- Vito Rotta (nella realtà Motta), banditore. Accendeva anche le lampade a
petrolio ogni sera. Inoltre era guardiano del carcere.
- Titta Cacciabrucio (in realtà, in dialetto, ”Cacciacavrushe”, ossia “caccia
che brucia”), contadino, raccoglieva lo sterco lasciato dagli asini e dai buoi
al ritorno dai campi, per usarlo come concime nell’orto.
- La Rosa, farmacista.
- Rucci, Brigadiere dei Carabinieri, comandante della Stazione di Nocera.
- don Mico Ferlaino, guardia comunale, era in realtà don Mico Procida.
- Antonio Zumbo, Appuntato dei Carabinieri prossimo alla pensione.
- Tommaso Mastroainni, proprietario della “Macchina dei Longo”.
- Segretario Comunale (il nome non è riportato ma si tratta di don Carmine Geraldi).
- Lorenzo Surace e moglie, contadini di Pietrebianche che ospitarono
Michele durante la sua breve latitanza.
- Celsa, Brigadiere dei Carabinieri in epoca precedente ai fatti narrati.
- Antonia Cinnera, donna di Nocera, corpulenta, alta m. 1,80.
- Salvatore Vinciguerra, marito di Antonia Cinnera, avvezzo al vino, un
omino alto appena m. 1,50, quindi molto più basso della moglie.
* In una corrispondenza epistolare intercorsa tra lo scrivente e il preg. avv. Manfredi – Gigliotti, questi mi offrì due precisazioni a proposito del suo romanzo:
1) Alle pag. 128 e 142 si fa riferimento al moschetto 91/38 (in dotazione ai Carabinieri). In sostanza, il moschetto non poteva essere un 91/38 ma, considerata l’epoca in cui i fatti accaddero, solo un 91 (cosiddetto, perché costruito nel 1891, fu usato durante la guerra del 1915/18). Il modello venne, poi, aggiornato nel 1931 e da qui prese la denominazione di 91-38.
Inoltre, a pagina 47 si fa cenno a un animale, il “latrice” (lontra), che però, in nocerese è detta “litria”.
Tratto da "NOCERA TERINESE Storia e Storie" Vol. 3 - Dal 1700 alla guerra 1915-18 di Adriano Macchione (ed. Ma.Per.)