ALLE ORIGINI DEL RITO (parte prima)
In epoca primordiale i sacrifici che l’uomo dedicava alle divinità si basavano sull’offerta di sangue umano. L’uomo sacrificava il suo simile. Poi, in seguito, passò al versamento del proprio sangue. Fu quella una sorta di prima codificazione di carattere etico. Nelle religioni primitive, la flagellazione era un rito magico che aveva il fine di ridestare la prosperità negli uomini e anche negli animali sottoposti a tale pratica, liberandoli, inoltre, dagli spiriti cattivi.
Furono i Greci che, nell’Italia Meridionale, all’inizio dell’epoca coloniale, estirparono definitivamente le vecchie usanze che contemplavano versamenti di sangue degli altri simili, sostituendoli con nuovi riti di flagellazione che prevedevano il versamento ognuno del proprio sangue. Questi nuovi riti, in epoca pagana, erano quelli legati al culto di Attis e di Cibele, originari della Frigia, in Asia Minore.
Attis era un giovane pastore dalle sembianze bellissime. In costume tipico del luogo, con berretto a punta, anassiridi, tunica con maniche e stellata, con in mano la verga del pastore. Rappresentava la divinità della vegetazione, simboleggiata in queste vesti.
Cibele era una divinità che, in origine, non ebbe un nome proprio, ma era denominata genericamente Madre o Gran Madre. In seguito, fu chiamata con termini derivanti dai monti dove si praticava il culto. Infine, si giunse al nome di Cibele, che le fu attribuito in Frigia, dove, come Attis, era particolarmente onorata. Il nome le fu dato, ancora una volta, da un monte della stessa regione mai identificato. In Frigia, il culto di Cibele era di carattere orgiastico e sanguinoso.
Comunemente, Cibele era relazionata al culto degli alberi, delle pietre, delle meteoriti e al rispetto che si doveva ad alcuni animali, primo fra tutti il leone, che era considerato la sua cavalcatura.
In Anatolia, più specificatamente, era la divinità della natura e della fecondità della terra, moglie di Urano.
I culti di Attis e della Gran Madre o Cibele erano tra loro strettamente correlati. Per loro nascerà uno dei più affascinanti “misteri” Ctoni di carattere soteriologico. Una divinità ctonica era venerata perché la sua leggenda era collegata con la vita terrena o sotterranea.
Non si può dire con certezza quando in Frigia siano sorti i misteri. Per certo si sa solo che essi furono divulgati nella civiltà mediterranea dopo il VII secolo a. C., quando la Frigia perse l’indipendenza. In Grecia, però, del culto di Attis se ne ha riscontro a partire solo dal IV secolo a. C., quando fu assimilato a quello della dea Demetra. Probabilmente, quando la pratica iniziò a diffondersi, ci furono molte resistenze, poi il culto dilagò.
La dea Demetra, considerata la sorella di Zeus, era nominata anche Rea oppure anch’essa Gran Madre Cibele, in quanto identificata come madre degli dei e degli uomini.
Rappresentava la divinità della terra coltivata e del grano. Era venerata da tutte le stirpi elleniche, compresa quella della Sicilia, e da tutti i contadini perché regalava fecondità alla terra. I contadini, a Demetra, dedicavano la festa del raccolto e della semina. Demetra era venerata anche con il nome di Tesmoforo perché regolatrice delle leggi coniugali e matrimoniali e con il nome di Ilizia come divinità del connubio e della nascita.
Inoltre, era ritenuta una divinità ctonica, collegata con la vita terrena o sotterranea. Infatti, relazionata alla divinità Persefone, era detta Ctonia. Le feste in onore di Persefone erano feste agrarie e celebravano la fine dell’estate con la raccolta delle messi e l’inizio dell’inverno, quando la dea se ne tornava nell’oltretomba. Per Demetra, in Atene e Sparta, si praticava un sacrificio durante l’inumazione dei morti. Comuni al culto di Demetra e Persefone sono le spighe di grano, il fiore del narciso e del papavero, il calato, quest’ultimo un canestro di giunco o di canne a forma di cono rovesciato, colmo di fiori, di spighe e di frutta. E, inoltre, la cista mistica, un canestro cilindrico in vimini.
In Grecia l’assimilazione delle feste di Attis e Demetra portò alla nascita di un altro vero e proprio “mistero”.
Ma in cosa consisteva il mito di Attis?
La versione più completa del mito, in Pausania e Arnobio, racconta che Zeus tentò di possedere Cibele (la Gran Madre). Dal tentativo nacque la bisessuale Agdistis che si unì a Nana, figlia del re Sangario, mitico dio del fiume omonimo, l’attuale Sakarya, nella Turchia settentrionale.
Dall’unione di Agdistis e Nana nacque Attis.
Un giorno Attis, bellissimo fanciullo, fu amato dallo stesso “genitore” Agdistis. Ma quando Attis celebrò le sue nozze con il figlio del re Mida, a sua volta figlio di Cibele, Agdistis, pervasa da furia e ribollente gelosia, fece irruzione nel luogo del banchetto e trasmise a tutti i convitati un “furore selvaggio” che li indusse a evirarsi.
Attis, eviratosi anch’egli, morì con gli altri, ma in seguito resuscitò.
Questa, comunque, è una delle tante versioni del mito di Attis.
Un’altra versione del mito, infatti, racconta che Attis, era stato esposto sulle rive del fiume Sangario. Scoperto da Cibele, fu lei, e non Agdistis, ad amarlo.
Quando Attis stava per contrarre matrimonio con la figlia del re Passinunte, e non con il figlio del re Mida come dice il racconto precedente, la dea Cibele, e non Agdistis, accecata dalla gelosia, impedì l’unione. Attis, in preda alla follia, si evirò, morendo dissanguato sotto un pino. Cibele, colta dal rimorso, trasformò Attis in un pino, l’albero ai piedi del quale il giovane era morto.
Due leggende diverse, dunque.
In verità, però, esistono anche altre versioni. Comunque, da queste leggenda, qualunque sia la versione corretta, nacque in Frigia il culto di Attis.
La sua autoevirazione, nelle civiltà primitive, apparve come un trasferimento delle forze umane sulla natura con lo scopo di aumentarne le capacità fecondanti.
Il mito di Attis era portato a conoscenza degli iniziati al culto che così capivano il significato del rito attraverso il quale potevano ottenere l’immedesimazione con il dio e la loro salvezza.
Nella Frigia, alla dea Cibele, era dedicato un rito durante il quale sacerdoti procedevano alla processione della statua in argento della dea, il cui viso era scolpito nella pietra nera. I nobili del luogo davano vita alla penitenza camminando scalzi mentre i sacerdoti si ferivano a sangue, al suono di una rumorosa musica di tamburelli e pifferi, così da far vedere il “divino furore” che li aveva presi al ricordo del dolore di Cibele per la morte di Attis.
Oltre ai riti per propiziare la fecondità della terra con l’offerta del sangue da parte del sacerdote e a quelli per la morte e la resurrezione del dio Attis, un altro rito antichissimo era quello per la morte e resurrezione di Adone, divinità venerata in Grecia nei secoli VII e VI a. C., in maniera particolare dalle donne. Adone era celebrato insieme a Venere.
Bellissimo e conteso tra Afrodite e Persefone, morì ucciso da un cinghiale suscitatogli contro da Ares e da altre divinità. Alla sua morte, nei tanti sepolcri a lui dedicati, non mancarono pellegrinaggi e adorazioni.
Nel corso dei riti, i simulacri di Adone e Venere venivano fatti sfilare per l'abitato, accompagnati dal suono di lugubri strumenti, con le movenze proprie del funerale. Tra la gente al seguito, un gruppo di persone si percuoteva e si lacerava, mentre un altro gruppo portava in mano i cosiddetti “piatti”, propri anche della religione di Siria e dell’antico culto della stessa divinità. I “piatti” erano memorabili omaggi floreali, celebrati come i “Giardini di Adone”. Diventarono una tradizione, perpetuatasi nei secoli fino ai nostri giorni e diffusa in molte nazioni. L'ultimo giorno delle celebrazioni, dopo il dolore, arrivava il momento della gioia sfrenata, a imitazione del tripudio di Venere quando, dopo la morte di Attis, ottenne di averlo con sé per sei mesi all'anno.
Per il fenomeno del sincretismo i culti di Adone e di Venere, le cui feste erano dette “Adonie”, finirono per essere inglobati in quelli di Cibele.
Per quanto riguarda la Dea Siria, nella cui religione, come visto, si usavano i “piatti”, era l’antica divinità semitica Atargatis o Adhargatis, originaria della Siria e quindi chiamata dai Greci con questo nome. Considerando le molte affinità con il culto di Cibele, probabilmente essa fu identificata con la stessa dea.
Non erano, però, solo queste le feste di sangue.
Altre collegabili al culto di Attis si svolgevano a Cipro, dove si tagliava un tronco di pino che poi si ornava di bende, ghirlande e violette, come se fosse un cadavere. Inoltre, il 24 Marzo, “giorno del sangue”, a Passinunte, città della Galazia, a Jeropoli, città della Frigia e a Cropoli si tenevano festeggiamenti dello stesso tipo.
Passinunte era divenuto un grande centro religioso per la costruzione di un santuario dedicato a Cibele. L’informe simulacro della dea si credeva fosse caduto dal cielo. Nel 204 a. C., per ordine dei libri sibillini, il simulacro fu portato a Roma.
I libri sibillini erano una raccolta di oracoli, cioè di responsi, che nei vari popoli pagani si credevano forniti dalle divinità, per bocca di sacerdoti e sacerdotesse. Nei secoli fu consultata da collegi di sacerdoti, finché non fu distrutta nell’83 a. C. da un incendio al tempio in cui era custodita.
Durante i culti di Passinunte del 24 marzo, il gran sacerdote, detto Arcigallo (dal fiume presso Passinunte che si chiamava Gallo), si toglieva dalle braccia una buona quantità di sangue e lo dava in offerta. I sacerdoti a lui inferiori, detti Galli, e i fedeli, al suono di cembali, tamburi e pifferi, dopo aver danzato freneticamente, si flagellavano le carni con dei cocci e “si laceravan la pelle con pugnali”, così come dicono i testi antichi e come riporta Catullo, che ne descrisse il dolore . Poi, il sangue uscito dalle ferite, era sparso sull’altare o sull’albero sacro. Tutto si svolgeva all’esterno del tempio in quanto, all’interno, non era permesso entrare. Si credeva che il sangue offerto al dio avrebbe dato la forza di rinascere a nuova vita. Il giorno successivo, il 25 marzo, “la resurrezione divina era salutata con grida di gioia”.
A Jeropoli si svolgevano riti quasi eguali a quelli di Passinunte, non solo per Attis, ma anche in onore della Dea Siria. Questi riti si tenevano sempre all’esterno del tempio dove, anche in questo caso, nessuno poteva entrare. Si credeva che il sangue offerto dal sacerdote e dal fedele che durante il rito si frustavano e si ferivano violentemente, avrebbe dato alla divinità la forza di rinascere.
La Dea Siria, come detto, era il nuovo nome con il quale i Greci (e poi anche i Romani) accolsero l’antica divinità semitica Atargatis o Adhargatis, originaria della Siria. Viste le molte affinità con il culto di Cibele, come già esposto, essa fu identificata molto probabilmente con la stessa dea.
A Roma questo culto giunse verso la fine del II secolo a. C.
Un mondo infinito, quello della flagellazione presso i pagani. Cerimonie molto eguali a quelle descritte, infatti, si svolgevano anche in Babilonia e in altri centri dell’Asia occidentale, per celebrare la morte di Tammuz.
Tammuz era l’Adone babilonese, spirito della vegetazione. Il suo culto penetrò anche presso una parte del popolo d’Israele. Si può intuire da quanto riporta Ezechiele nella descrizione del tempio, nel periodo della “cattività” di Babilonia: “...sedevano delle donne che piangevano Tammuz”. In questa celebrazione funebre, probabilmente, si svolgeva anche il rito del sangue in uso presso gli ebrei del tempo, con “strazio dei capelli e incisioni nelle carni, per farne uscire il sangue”.
Altre cerimonie funebri con riti di sangue si svolgevano anche presso gli Sciti, popolo di stirpe iranica che abitò la regione della Russia meridionale. Alla morte del re si tagliavano le orecchie, praticavano la circoncisione alle braccia, si trafiggevano con frecce la mano sinistra. Celebrazioni funebri si ricordano anche presso altri popoli barbari. Alla morte di familiari in molti si troncavano le orecchie e le narici per calmare gli dei infernali che non avrebbero così arrecato ulteriori danni.
In Australia, presso i popoli primitivi, ci si feriva sulle tombe degli amici per dare all’anima la forza di rinascere. E sempre in quella terra, presso i Dieri, il rito del sangue era in uso anche per cerimonie di propiziazione della pioggia. Si scavava una fossa, si costruiva una capanna con rami e foglie, si ferivano due stregoni sull’avambraccio con una pietra tagliente, il sangue che usciva era fatto cadere, insieme a della lanugine, all’interno della capanna, sugli altri membri della tribù.
Il sangue era la pioggia, la lanugine, che in parte cadeva sui corpi insanguinati, in parte restava sospesa nell’aria, rappresentava le nuvole.
Presso i Greci la flagellazione fu praticata a Sparta dove si svolgeva la Festa dei Giovani, molto seguita e conosciuta, che si teneva davanti al simulacro di Artemide Ortia, la dea greca della caccia, quella che poi i Romani identificarono con Diana.
A Sparta, la sua venerazione rappresentava il culto della vegetazione e della fecondità, con maschere votive e danze. La flagellazione consisteva nella fustigazione di alcuni fanciulli davanti agli altari della dea.
Da ricordare, infine, la “Flagellazione del Mare”, fatta praticare da Serse prima della spedizione in Grecia, per propiziare la vittoria dei suoi soldati.
E in Italia, come arrivarono i “misteri”?
I “misteri”, provenienti dalla Grecia, ben presto dilagarono nella Magna Grecia, dove furono immediatamente fatti propri. Da qui, si diffusero ben presto anche a Roma, dove giunse prima il culto di Cibele e subito dopo quello di Attis.
Il culto di Cibele in Italia fu introdotto ai tempi di Annibale, nel 204 a. C. .
Quando il generale cartaginese era in pratica ormai sconfitto, ma si aggirava ancora minaccioso per le montagne e i litorali della Brettia, arrivarono giù dal cielo piogge di meteoriti, evento che spaventò non poco le popolazioni romane. Si era nel 205 a. C. e furono allora consultati i libri sibillini. Le profetesse annunciarono che Annibale sarebbe stato cacciato definitivamente dall'Italia se fosse stata portata a Roma la statua di Cibele.
Inizialmente il Senato rimase abbastanza perplesso, in quanto il fanatismo frigio era in netto contrasto con la religione ufficiale di Roma. L'ostacolo fu superato isolando completamente la pratica del nuovo culto, con il divieto ai cittadini di entrare nel clero della dea e di partecipare alle sue orge sacre. Poi, nel 204 a. C., il 9 aprile, la pietra nera meteoritica, ritenuta l’immagine della dea, fu portata a Roma, dove fu installata nel Santuario della Vittoria sul Palatino, tra i festeggiamenti dei Romani che la incensarono in abbondanza. Festeggiamenti che aumentarono, dopo la battaglia di Zama, dove Annibale fu ancora una volta sconfitto dalle forze romane. Alla dea, allora, fu costruito un tempio sulla sommità del Palatino. Cibele era adorata con il nome di “Magna deum Idaea Palatina” e la festa, che fino ad allora durava un giorno, fu prolungata a una settimana, dal 4 al 10 aprile. Inoltre, le famiglie di origine troiana, fondarono delle associazioni che posero sotto il loro patrocinio.
Le feste in onore della dea furono però cambiate dal Senato, che le adattò alle tradizioni dei Romani e controllò con attenzione l'evolversi della pratica del culto, che si svolse in maniera abbastanza oscura, a causa del divieto. Ma, nonostante questa situazione di attento controllo, la religione frigia aumentò il numero degli osservanti, soprattutto tra gli schiavi, la plebe, i liberti e i commercianti di origine e provenienza asiatica. Era una devozione permeata da una sorta di superstizione.
Il culto di Attis, invece, fu introdotto a Roma, successivo a quello di Cibele, attorno al 200 a. C.
Esso assunse anche la forma di un dramma mistico sulla morte e resurrezione del dio. Naturalmente, andò a intrecciarsi alle cerimonie per le feste di Cibele, giunte in precedenza, che simboleggiavano il periodico risorgere della natura a primavera.
Dopo il primo impatto di Roma con i nuovi culti di Cibele e poi di Attis, il divieto e l'atteggiamento dell'autorità romana durarono fino ai primi anni dell'età imperiale. Poi l’imperatore Claudio introdusse una nuova fase di celebrazioni, autorizzandole senza limitazioni. Le feste furono segnate sul calendario e i sacerdoti non più minacciati di espulsione. La Dea Madre, così, divenne la più celebrata anche tra la borghesia e i contadini. I Dendrofori, ossia i portatori del pino sacro, fondarono ovunque associazioni riconosciute. Inoltre, ebbero l'incarico di spegnere gli incendi, dapprima nei boschi, poi anche in città.
Attis, considerato l' “Altissimo” e l' “Onnipotente”, ebbe il titolo di “menoturannus”, ossia “Signore dei mesi” e fu identificato con il Sole (che a ogni mese entra in un segno zodiacale sempre nuovo), con Men (che era un dio lunare, con l'imperio sul cielo e sul mondo sotterraneo), con Adone, Bacco, Pan, Osiride, Mitrha. Divenne, insomma, un dio che comprendeva in sé tutte le religioni.
Il rito di Attis e Cibele si celebravano nel periodo dell’equinozio di primavera, dal 15 al 27 marzo.
Tutto iniziava con la processione dei Cannofori, ossia “Portatori di canne”, che ricordava la nascita di Attis in un canneto (come Mosè) oppure l'incontro di Attis con Cibele. La processione si concludeva con il cosiddetto “ingresso delle canne”.
Di seguito, iniziava un periodo di digiuno. Poi, il 22 marzo, per simboleggiare la morte di Attis, veniva abbattuto un pino. L’albero era avvolto di bende e fili di lana e ornato di violette come un cadavere, mentre, nei suoi pressi, i fedeli si lamentavano per il dolore. I Dendrofori trasportavano il pino sul Palatino, verso il tempio di Cibele, nel corso di una solenne processione, come in una sorta di funerale. Rappresentava una specie di attesa della morte di Attis. Il 24 marzo, nel giorno detto “Sanguinis”, i Galli, che erano, come detto, i sacerdoti di Cibele e che non potevano avere la condizione di cittadini, si flagellavano a sangue, tra il suono triste e lugubre dei flauti. Tra i fedeli, chi aspirava a diventare sacerdote, si evirava con una pietra tagliente. Gli iniziati, invece, erano battezzati con il sangue di un toro sacrificato, il rito del “Taurobolio”, che significa “Toro colpito”.
Questo rito era noto come il “battesimo del sangue”. Strettamente collegato al culto della dea Cibele, era stato introdotto a Roma contemporaneamente a esso, nel 204 a. C.
Si sacrificava un toro, per cospargere di sangue la persona devota per cura della quale l’animale era stato sacrificato. Il devoto era condotto in una specie di celletta sotterranea, profonda pochi metri dal suolo e coperta da un reticolato in legno. Sopra al reticolato, il sacerdote di Cibele uccideva il toro, il cui sangue cadeva nella celletta sul capo del devoto. Questi, poi, usciva per presentarsi alla folla dei fedeli inneggianti, sporco di sangue, per attestare l’avvenuta purificazione.
I lamenti dei fedeli e la flagellazione continuavano fino a quando un Gallo annunciava la resurrezione di Attis. All'improvviso, da queste feste del lutto, dette “Tristia”, si passava da un sentimento di dolore a uno di smodata gioia, i cosiddetti “Hilaria”, con deliri di giubilo e abbondanti banchetti. Corrispondeva alla Pasqua e divennero, nel III sec. d. C., una delle più grandi festività di Roma
Poi, dopo le “Hilaria”, le cerimonie si chiudevano il 27 marzo. Le statue di Attis e Cibele, alla presenza dei Galli, di varie autorità, guardie in armi, musicanti e un'immensa folla di fedeli, erano portate in processione trionfale. Il rito di Attis e Cibele, alla fine della festa, era chiuso con copiosi banchetti e mascherate a carattere orgiastico che celebravano il dio risorto.
A Roma, infine, dopo questi riti, si diffuse verso la fine del II secolo a. C. , come già detto, anche il culto della Dea Siria che divenne ufficiale con Alessandro Severo che le dedicò un tempio in Trastevere.
Altri riti di flagellazioni erano quelli delle Feste Lupercali, delle None Caprotine e della festa di Fauna, detta anche Bona Dea. A compiere l’atto, o a subirlo, erano le donne. Importanti erano anche il culto di Iside, di Cerere e la pratica dei Bellonari.
Le Feste Lupercali si svolgevano il 15 febbraio ed erano un rito di purificazione in onore del Dio Luperco. Si tenevano davanti al Lupercale, una sacra grotta trasformata in santuario ai piedi dell’altura del Germalo sul Palatino, dove, narra la leggenda, furono trovati Romolo e Remo. I sacerdoti che vi operavano erano chiamati Luperci. S’immolavano dei capri e un cane, poi si segnava con il sangue dei capri la fronte di due giovani sacerdoti che si vestivano con le pelli degli stessi animali uccisi. Così acconciati, i due giovani, con in mano una cinghia ricavata anch’essa dalle stesse pelli, correvano attorno al Palatino, colpendo ripetutamente le donne che volevano la fertilità. La festa durò fino al termine del V secolo d. C.
Le feste di Fauna, invece, si svolgevano il 1° maggio. Fauna era la divinità romana dei boschi e della pastorizia, chiamata anche Bona Dea.
Le None Caprotine si svolgevano il 7 luglio. Erano la festa femminile della fecondità, caratteristica delle ancelle, in onore di Giunone Caprotina.
Molto diffuso era anche il culto di Iside.
Iside, moglie di Osiride e madre di Horo, era una dea egiziana che godeva fama di essere una grande maga. Sin dall’inizio del III sec. a. C. fu identificata con Cerere e Demetra e d’allora il suo culto si espanse in Tracia, nell’Asia Minore e in tutta la Magna Grecia, dalla Sicilia alla Campania. Lattanzio tramandò che attorno al 300 a. C., in Egitto, i sacerdoti di Iside, si battevano sul petto, a imitazione della dea alla ricerca di Osiride.
A Roma, dopo che da principio era stato osteggiato, il culto fu ufficialmente riconosciuto nel 38 d. C. al tempo dell’imperatore Caligola. Giunse, quindi, ancor prima di quello di Cibele e di Attis. Alla dea venne eretto un tempio, il famoso santuario di Iside nel Campo Marzio. Il culto, da quel momento, si diffuse nell’impero con rapidità un po’ dovunque. Nei racconti su Iside, si nota che in questo culto, molti e importanti sono gli aspetti iconografici che evidenziano segni sincretici con il successivo culto cristiano. Il culto di Iside era una ricerca mistica della divina salvezza personale e trasmetteva forza e conforto davanti alle difficoltà della vita.
Da ricordare, ancora, la ritualità del culto di Cerere, riconosciuta come la dea delle messi e protettrice dei campi. Durante una festa del 13 settembre, con l’inizio della stagione autunnale, si raccoglievano i voti, poi, con l’arrivo della stagione primaverile, il 12 aprile, si celebrava a Roma un’altra festa in suo onore e di giubilo per la purificazione della terra. Si inneggiava con canti propiziatori e pubbliche cerimonie tenute dai “frates Arvales”, i “fratelli agresti”, affinché i campi producessero dei frutti.
In quest’occasione, venivano offerti i “piatti”, costituiti da primizie e citati, in questo caso, come i “satura lanx”.
Esisteva, inoltre, il rito dei Bellonari.
Bellona era l’antica divinità romana della guerra. Tutto iniziò quando nell’anno 92 Silla giunse in Cappadocia dove conobbe il culto della dea Ma. Questa era già assimilata ai culti di Passinunte. Silla disse di avere sognato la dea. Il culto di Ma, quindi, fu introdotto in Roma, dove ben presto la dea fu identificata con Bellona. Il rito era molto simile a quello reso alla Dea Siria. I sacerdoti erano detti Bellonarii. Dopo il III sec. d. C. a Bellona fu consacrato un tempio presso l’Ara Martis.
Sulla pratica in Africa del culto di Bellona e su come si espletava il rito nel II sec. d. C. al tempo dei Severi, riportò qualcosa di molto interessante Tertulliano. Questi, apologo del Cristianesimo, era molto critico verso i riti e i culti pagani. In “Apologeticum”, nel 196 a. C., descrisse il rito di iniziazione dei neofiti: “Hodie istic Bellonae secatos sanguis de femore prescisso palmula exceptus et usui datus signat.”
I sacerdoti di Bellona, i Bellonarii, si lanciavano in danze selvagge e si tagliavano le gambe (per questo sono detti “Bellonae secatos”). Poi il sangue fuoriuscito delle gambe percosse (“sanguis de femore prescisso”) veniva raccolto con la palma di una mano (“palmula exceptus”) e fatto bere per voto (“usui datus signat”) agli iniziati che così erano consacrati.
La traduzione, comunque, non è univoca.
La difficoltà deriva da “palmula exceptus” che può significare “raccolto nelle palme delle mani” ma anche, “ferito dalla palma” che racchiudeva uno strumento di tortura quale sarebbe potuto essere un “cardo” (un pezzo di sughero con sopra infisse delle lame taglienti). Per cui la traduzione potrebbe essere: “Ancora oggi, presso di voi, i “feriti di Bellona” vengono iniziati usando del sangue tratto da una coscia ferita dalle palme delle mani”.
A prescindere dal significato, comunque, si tratta di un documento molto importante: è il primo che, seppur descrivendo un rito di iniziazione, parla di sangue fuoriuscito da ferite prodotte sulle cosce, così come oggi succede nel rito dei “Vattienti”. E che potrebbe essere stato prodotto dalla palma della mano che, chissà, nella descrizione di Tertulliano, avrebbe potuto tenere qualche strumento di tortura. Come a Nocera, dove i “Vattienti” nella palma reggono il “cardo”.
La flagellazione, durante la nuova era cristiana, continuò naturalmente a essere molto praticata.
C'è da mettere in evidenza, però, che pur esistendo nel cerimoniale di alcune liturgie e funzioni una netta linea di divisione tra era pagana e cristiana, in molte ritualità della nascente era cattolica furono inevitabilmente conservate alcune usanze che si riallacciavano al mondo precristiano. Sia nel comportamento dei fedeli, come per esempio nell’offerta votiva di animali, olio, cereali, danaro, con il versamento del sangue con la flagellazione, con il segno delle case con il sangue, con l’offerta dei “piatti” germogliati al buio, sia nei cerimoniali della Chiesa ufficiale, come per esempio nell’uso dell’acqua santa, dell’incenso e in molti altri particolari.
La maggior parte di questi usi, sopravvissuti in tutto il mondo cristiano in generale, sono presenti anche nella ritualità della Settimana Santa di Nocera. (CONTINUA...)
Tratto da "NOCERA TERINESE Storia e Storie" Vol. 1 - Dalle origini a tutto il 1400 di Adriano Macchione (Ma.Per. Editrice)